In
quel mezzodì di luglio, il sole picchiava duro sulla sterrata mentre
scendevo, alzando un nuvolone di polvere, verso casa. In lontananza
il mare di un azzurro intenso, brillava immoto, la rada vegetazione
dell’isola era già ingiallita, resistevano solo i cespugli di
capperi, le viti e i fichi d’india. Fatta l’ultima curva
m’apparve il tetto delle scuderie e al rombo del fuoristarada fece
eco il forte nitrito di Fosca, la mia giumenta anglo-araba, a cui
rispose una altro nitrito, più forte e più roco che non conoscevo
ed ero certo non appartenesse a nessuno dei miei cavalli. Giù più
in basso, dove si acquattava sornione il grande mulino di nera
pietra, che era casa mia, di fianco ai pali dell’incannizzato un
grande cavallo nero come una notte senza luna, puntava le piccole
orecchie falcate nella mia direzione, accovacciata a terra, la
schiena appoggiata al palo, un logoro cappello di paglia a nascondere
il volto, stava una figura maschile. Non ebbi più alcun dubbio
circa l’identità dei miei inaspettati visitatori, si trattava di
Furia, l’anziana giumenta di “Agostino u fodde”, grande
cavaliere e inveterato bevitore, che di tanto in tanto faceva
irruzione al galoppo sfrenato nel piazzale delle scuderie, inscenava
una sorta di carosello, e poi lanciando dietro di se una bottiglia
vuota si dileguava tanto improvvisamente quanto era comparso. Quella
volta c’era però qualcosa di diverso, sia la cavalcatura che il
cavaliere avevano perso la loro consueta baldanza, parevano entrambi
appannati, quasi si fossero arresi di fronte a un evento
ineluttabile. Agostino non si mosse al mio arrivo, ma rivolse verso
di me i suoi chiari acquosi occhi, come suo solito il volto solcato
da profonde rughe era cosparso da una cespugliosa e rada barba
grigia, ciocche di capelli grigiastri fuoriuscivano, quasi volessero
fuggire altrove, dalle falde del consunto sombrero; una banda di
colore e natura indefinibili gli cingeva il collo; la banda
sorreggeva il braccio destro avvolto in una improvvisata fasciatura.
L’immagine
diceva molto di più delle parole, del resto per me poco
intellegibili dato l’eloquio in stretta lingua pantesca, di
Agostino; dico lingua e non dialetto perché l’idioma era andato
formandosi nel corso di lunghi e svariati influssi, dai Punici, ai
Romani, agli Arabi, ai Normanni agli Aragonesi, ai Siciliani e anche
in ultimo agli Italiani, ma questi per scontati motivi temporali
ancora poco influenti!
Agostino
s’era fatto male, e sapendo di non poter accudire la sua
cavalcatura, aveva pensato a me “Quello dei cavalli”, per
risolvere il suo problema. L’uomo non era nuovo a vistosi
incidenti, ancora si narrava di quando una notte, rientrato, guarda
caso brillo, pensò di mettere la “barda” a un giovane torello,
che evidentemente non gradi molto il trattamento e mandò il suo
improvvido cavaliere all’ospedale. Anche questa volta Agostino
sarebbe finito all’ospedale, ce lo avrei portato io dopo aver
sistemato la sospettosa Furia in un box libero, ma il motivo
dell’incidente era di certo meno avventuroso, capii, infatti, che
era semplicemente inciampato sull’uscio di casa rientrando a notte
fonda nel suo abituale stato d’ebrezza.
Agostino
mi diede una rapida lezione di come sellare l’ombrosa sua
cavalcatura, infatti, al mio primo tentativo rischiai un funambolesco
calcio portato da dietro verso l’avanti, il segreto stava nel non
posizionarsi mai a poppavia del garrese!
Furia
non era una cavalcatura per chiunque, abituata com’era al polso
ferreo e al carattere intrepido del suo cavaliere, decisi quindi che
l’avrei montata io per accompagnare i miei ospiti in passeggiata.
Una delle mattine seguenti all’arrivo di Agostino, mi trovavo, con
due altri cavalieri abbastanza esperti, sulla lunga sterrata di
contrada Rukia, i mie accompagnatori erano d’accordo per un piccolo
galoppo; non appena toccai con i talloni i fianchi di Furia, questa
si lanciò in una lunga ed elastica falcata, ben diversa dal
galoppino contenuto che sarebbe stato nelle mie intenzioni. Subito
per prima cosa pensai che ero ben felice di non aver sostituito il
severo morso dalle lunghe leve con un imboccatura più dolce, non
avrei mai potuto fermarla! L’andatura era però piacevolissima,
elastica confortevole e potente al medesimo momento, ad un certo
punto l’anziana giumenta incespicò sullo sconnesso fondo della
sterrata, e già mi vidi lanciato a pelle di leopardo a gratuggiarmi
sul ruvido terreno, ma Furia, senza rallentare l’andatura si
risollevò e riprese la sua corsa che a malincuore controllavo per
rispetto ai miei ospiti. In quel primo galoppo non potei fare a meno
d’immaginare le galoppate di Furia e Agostino nelle storiche corse
che si disputavano attorno allo Specchio di Venere, e che erano
seguite con passione e tifo sfegatato da tutta la popolazione. Non mi
era difficile immaginare Agostino ben piantato sulla sua barda in
iuta e senza staffe, leggermente chinato in avanti, le brigle corte
mosse con ampi movimenti a incitare l’allungo della giumenta,
galoppare in un nugolo di polvere tra schiamazzi, urla d’incitamento,
frastuono di zoccoli, pesante afrore di effluvi equini e umani
condurre Furia alla testa del gruppo e vincere di una buona
lunghezza sul gruppo scatenato nella sua scia!
Passò
quasi tutta l’estate e ormai m’ero abituato al carattere un
ombroso rustico di Furia, che ben nutrita aveva arrotondato le sue
forme spigolose, ora sfoggiava un mantello lucido con riflessi
bluastri, e anche lei pareva si fosse abituata alla nuova vita e a un
diverso cavaliere, perché ben inteso, non la feci mai montare a
nessun altro. Di Agostino non avevo ricevuto notizie, pareva
scomparso nel nulla, non andai mai a cercarlo, perché in realtà
avere Furia non mi dispiaceva affatto, e quindi nel reciproco
silenzio pensavo che le cose potessero restare così sospese; una
notte di luna però fui svegliato da un forte nitrito, udii un veloce
calpestio di zoccoli, quando uscii fuori feci appena in tempo a
scorgere in un lampo di luna la nera groppa di Furia che saltando
muri a secco galoppava verso Bukkurham, seppi allora che Agostino,
l’ultimo ginnete di Pantelleria era tornato a casa!