Un breve racconto tratto da il libro:
edizione il Frangente - Settembre 2016
Un
amico svizzero da poco conosciuto rischia l’affondamento nella
darsena dello Yacht Club Argentino, ma riusciamo a portare la barca
in un cantiere dove sarà riparata.
Erano
passati solo pochi giorni dal nostro arrivo a Buenos Aires e già
s’era consolidata la piacevole abitudine di un aperitivo serale nei
locali del club con il mio nuovo amico André. Mentre lo attendevo
comodamente sprofondato in una sontuosa poltrona rivestita in cuoio
mi godevo il raffinato interno in stile old
navy della
club
hause,
domandandomi come mai l’amico non fosse puntuale come d’abitudine.
La precisione era, infatti, una delle più spiccate caratteristiche
d’André, un simpatico svizzero tedesco di una settantina d’anni
che era arrivato a Buenos Aires da Usuhaia dopo aver compiuto più
della metà del giro del mondo in solitario.
La
grande figura d’André, resa ancora più imponente dalla candida
capigliatura e dalla folta barba bianca che gli incorniciava il viso,
comparve improvvisamente e, restando in piedi, disse nel suo italiano
pesantemente alterato dall’accento svizzero-tedesco:
«Luigi,
non possiamo prendere aperitivo, mia barca sta affondando!»
Il
tono era lo stesso di chi avesse semplicemente detto: «Scusa il
ritardo», o qualsiasi altra banalità di convenienza.
Non
possedendo la sua flemma teutonica balzai prontamente in piedi e a
passo di carica lo precedetti verso la sua barca, un pesante cutter
in acciaio con lo scafo a spigolo, poco aggraziato, ma che emanava
una sensazione di grande efficacia e che per il momento pareva
galleggiare ancora egregiamente. All’interno la situazione era
però differente, i palioli sollevati rivelavano la sentina allagata
e una sorta di piccolo geyser zampillava quasi al centro della nera
pozzanghera facendo ribollire l’acqua tutt’attorno.
Navigatore
forse fin eccessivamente essenziale, André aveva solo 16
una
potente pompa di sentina a mano, che per di più era situata nel
locale wc poiché con una valvola a due vie assolveva bene, a suo
dire, entrambe le funzioni!
Non
vi era molto tempo da perdere in spiegazioni e lasciai l’amico alla
sua pompa a mano per correre a bordo del Jonathan,
da cui ritornai in pochi istanti munito di una pompa elettrica a
immersione, che avevo a bordo come rispetto, e di due barattoli di
stucco epossidico sottomarino, un vera e propria ruota di scorta per
un imbarcazione.
La
mia pompa elettrica e le vigorose pompate manuali d’André
ridussero in breve tempo il livello dell’acqua in modo che fu
possibile vedere con chiarezza il punto d’ingresso; lo zampillio
giungeva da uno dei tanti bulloni che fissavano una flangia metallica
che chiudeva il vano della pinna di deriva in cui era collocata la
zavorra in lingotti di piombo. Con lo stucco epossidico sottomarino
riuscimmo a ridurre l’entrata d’acqua a un sottile rivolo
perfettamente controllabile, ora si trattava di migliorare la tenuta
con successivi strati di stucco tenuti in pressione da una lastra
metallica e da una serie di lingotti in piombo presi dalla zavorra
della barca; finalmente più rilassati, era giunto il momento delle
spiegazioni.
Così
André mi raccontò che in una baia dei canali cileni aveva urtato
con la pinna uno scoglio, ma grazie alla solidità della sua barca
ne era uscito senza apparenti danni e in seguito aveva navigato nel
canale di Beagle e risalito tutta la costa dell’Argentina senza
vedere mai entrare neppure una goccia d’acqua. Solo ora si rendeva
conto che nell’urto doveva essersi creata una falla e che l’acqua
che era penetrata nel cavo del piano di deriva; era stata fino ad
allora trattenuta solo dalla flangia imbullonata, pensata per l’unico
scopo di tenere in posizione la zavorra e non certo per la tenuta
stagna all’acqua di mare o, come nel presente caso, di fiume!
Era
evidente che si rendeva necessario alare con urgenza la barca in
secco per vedere il danno e ripararlo, purtroppo però non era una
cosa tanto semplice, infatti in Argentina all’epoca era ancora
vietato mettere a terra imbarcazioni con bandiera straniera e inoltre
nell’area i club che avevano un travel-lift sufficientemente
potente per alare una barca pesante come quella dell’amico André
erano pochi. La vita dei club nautici di Buenos Aires era poi
ulteriormente complicata dal fatto che, essendo appunto
organizzazioni private e non cantieri o marine pubblici, per
qualsiasi decisione appena fuori da quelle di consueta routine era
necessaria l’autorizzazione del
Consiglio
Direttivo del club stesso. Sembrava proprio che l’unica soluzione
possibile fosse una navigazione di 170 miglia fino alla Marina di
Piriapolis in Uruguay; per di più ci trovavamo all’inizio
dell’inverno australe, con il rischio d’imbattersi in un fronte
freddo antartico, non certo le migliori condizioni di navigazione per
una barca buona ma ferita.
La
sera, dopo cena, parlandone con Silvia, lei mi ricordò di Raul, un
argentino che avevamo conosciuto in una sosta fatta a Piriapolis
appena arrivammo sul Rio. Raul ricopriva un importante carica
nell’amministrazione della capital
federal e,
sapute le mie origini in parte argentine e la nostra intenzione di
navigare fino a Buenos Aires, s’era premurato di raccomandarsi di
farci vivi quando fossimo arrivati, aggiungendo anche che di
qualsiasi cosa avessimo avuto bisogno avremmo potuto rivolgerci a
lui. In effetti già il giorno seguente il nostro arrivo allo Y.C.A.
gli avevamo telefonato ed era venuto a pranzare, in questo caso
nostro ospite,6
nel
lussuoso ristorante del club e ci aveva anche procurato un ormeggio
per un lungo periodo al Club Naval de Nuñez, dove avremmo dovuto
spostarci pochi giorni dopo e dove in seguito avremmo fatto base per
più di un anno.
La
mattina seguente chiamai subito il potente amico e al pomeriggio la
segreteria del club ci avvisò che il giorno dopo avremmo dovuto
portare la barca alla base del club sul fiume Tigre, dove un
travel-lift era pronto per metterla a terra!
In
qualsiasi parte del mondo ci si trovi delle buone conoscenze aprono
tutte le porte!
Una
profonda depressione situata in Atlantico, diverse miglia al largo
della foce del Rio de la Plata, avrebbe attratto per il giorno
seguente un primo afflusso d’aria fredda da ovest in asse con
l’andamento del Rio, proprio la perfetta direzione contraria al
nostro obbligato senso di navigazione, avremmo dovuto compiere tutto
il tragitto a motore, perché sul Rio bisogna navigare forzatamente
all’interno dei canali dragati e sarebbe stato praticamente
impossibile bordeggiare con le vele, ma non avevamo scelta, si doveva
per forza andare.
Ricordo
ancora quella navigazione come una delle più scomode mai fatte; al
freddo vento da ovest s’erano aggiunti degli sferzanti piovaschi
con la pioggia stirata orizzontalmente dal vento e la visibilità
fortemente ridotta, ci alternavamo mezz’ora di timone e mezz’ora
di pompa, perché con il movimento la riparazione di fortuna teneva
sempre di meno e la pompa di sentina elettrica non riusciva a
compensare l’afflusso d’acqua. Il timoniere doveva stare molto
attento a evitare il traffico commerciale dei grandi cargo che
percorrevano il rettilineo canale Emilio Mitre che collega il Rio
Paranà al porto di Buenos Aires, non vi era neppure la possibilità
d’uscire dalle boe del canale per facilitare gli incroci, perché
al di fuori di queste la profondità del Rio era di poco più di un
metro.
Con
i forti venti da ovest aumenta anche l’intensità della corrente
contraria e il Rio ha la tendenza a svuotarsi in Atlantico rendendo
ancora più probabile il rischio di un incaglio, cosa che
puntualmente avvenne quando avevamo percorso due terzi del tragitto e
ci trovavamo in un canale laterale del Rio Parnà, il Canal
Vinculation. Anche in questo caso André rimase imperturbabile e,
mentre io reprimevo una serie di colorite imprecazioni che mi
sorgevano prepotenti alle labbra, manovrò con calma sulla deriva
già ferita fino a riuscire a disincagliarsi.
Sebbene
la
pioggia fosse finita e il vento ora ci soffiasse a favore,
le
ultime miglia furono quelle in cui restammo in maggiore apprensione:
anche ai nostri occhi poco esperti osservando le sponde del canale
era evidente che l’acqua continuava a scendere, unica consolazione, se anche ci fossimo nuovamente insabbiati di certo non
avremmo mai potuto affondare in così poca acqua!
Alla
fine sul calar del sole raggiungemmo la sede del club e, posizionata
subito la barca tra le cinghie del travel-lift, André m’offri una
cena ristoratrice.
Più
tardi con un taxi ritornai a Buenos Aires e al club, dove ebbi una
sorpresa: invece di salire a bordo del Jonathan,
dovetti scendervi, infatti la darsena s’era quasi completamente
svuotata d’acqua e la barca giaceva leggermente sbandata con la
deriva completamente immersa nella molle fanghiglia del fondale del
Rio de la Plata.
Una
giornata faticosa ma emozionante e con la consapevolezza d’aver
dato una giusta mano a un fratello navigante!